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“Le forme e la pietà” – Chiesa di San Paolo al Piano, Vittorio Veneto TV – 1999

(intervento critico in catalogo)

[…] In Giorgio Vazza ritroviamo proprio questo desiderio di parlare del dolore da un’angolatura niente affatto filosofica, ma empirica, privata, cercando l’empatia piuttosto che il convincimento o l’appoggio morale. In lui è resistito a lungo

il ricordo di una personale esperienza ospedaliera, dovuta ad un traumatico incidente sul lavoro, e questo ricordo oggi egli ci mostra completamente trasfigurato dalla sua particolare ispirazione artistica che normalmente tende all’astrazione come superamento del mero dato biologico, quotidiano, per dare visualizzazione all’interna vitalità del simbolo. Consapevole che esiste sempre dolore più grande del tuo, egli ha scelto di focalizzare il particolare, di situare il suo discorso sulla sofferenza, all’interno della propria degenza, in un mondo bianco, come l’asettico mondo ospedaliero, ma anche come la pagina su cui scrivere la propria recuperata pulizia e dell’ordine ritrovato di una non più stravolta visione del mondo. Il racconto di chi è uscito dal tunnel e più non sente il ticchettio del minuti.

Il racconto di un mondo di corridoi bianchi, percorsi da corpi pesanti, affaticati dalla sofferenza, governati da orologi che scandiscono il tempo di ore interminabili, ma che potrebbero anche essere gli ultimi passi concessi dal tempo. E dentro l’ospedale giungono spesso le ore dei ricordi: s’accendono immagini di paesi, avvenimenti, storie che circondano la tua mente così come essa è tenuta prigioniera dentro un corpo malato, assediata dentro la scatola dell’ospedale.

E di nuovo si coglie anche in Giorgio questo pudore del discorso rievocativo, un’allusione al dolore molto mediata: l’uso di colori semplici, primari, come per un’infantile ritrosia; un tratto di pennello che subito asciuga e blocca l’attimo in cui il pensiero ritorna agli eventi, ma senza risvegliarne i mostri.

(Vittorino Pianca)