“Luoghi“ – Personale di pittura. Galleria dell’Eremo, Rua di San Pietro di Feletto TV - 2023
Stratificazioni. Il pensiero corre subito ad una montagna lontana, al Vinicunca. Corre al Perù. Alla distesa montana colorata. Giorgio mi accoglie con le opere aperte nell’aperto. All’esterno della sua casa. E subito mi si parano davanti le stratificazioni di millenni di luoghi.
Sono i luoghi dell’anima, mi dice.
Ogni opera dialoga con la sua vicina, là ci sono i gialli che continuano, qui i rossi che sussurrano. Poi una pennellata di nero a ripetere il segno della matita che graffia la carta. La sua passione. E il nero è il nero del granito che incide quel dolore che nasce dal Toc cadente. Ancora oggi, se guardi il monte Toc, cogli le stratificazioni di questo dolore. Leggi il segno dell’acqua che ha tagliato le vite. E Giorgio scrive tutto questo. Racconta l’acqua, l’aria, la montagna. Racconta i ricordi. Con pennellate di zolfo, il minerale della bellezza. Perché dice Giorgio, dal dolore si deve uscire.
I luoghi vissuti, respirati nella quotidianità, diventano i luoghi dell’invisibile interiore dopo un sottile e raffinato lavoro emozionale e concettuale. Lì, nella sua galleria all’aperto ho sentito e visto, nelle opere di Giorgio Vazza, tutto l’intorno e ho colto quel molto di più che nasce dal suo profondo lavoro di studio e ricerca. Ricerca che sempre ha accompagnato il suo lavoro artistico. Ricerca e sfida. Pensiamo alle installazioni, dove la sfida è quella di interagire con lo spazio circostante perché diventi un nuovo spazio, un nuovo luogo. Le sue installazioni sono una inedita visione dello spazio fino ad allora conosciuto. E riempiono di nuova vita la vecchia vita.
E lo spazio è luogo. E i luoghi sono gli spazi che ci circondano. Quel giorno a Sitran, il paesino dove – genialmente – si è tenuta la Rassegna internazionale di Portici Inattuali dal 1989 al 2001 e Giorgio è stato uno dei direttori artistici, quel giorno, dicevo, guardando le sue opere, ho posato lo sguardo a terra e ho letto sul prato una lettera d’amore scritta tra i fili d’erba, il muschio un po’ ingiallito, la piantaggine già verde e la terra. Parlava questa lettera della morte e della vita dei luoghi. Del rinascere. Della primavera che vince l’inverno. Del premere della foglia che vince la neve. Insomma ho letto il perpetuarsi del tempo.
Ed ecco l’altro grande tema presente nelle opere della serie dei Luoghi. Il tempo. I luoghi e il tempo. Sì, dice Giorgio, ci sono i luoghi di oggi ma anche i luoghi di ieri, quelli che non ci sono più, che sono spariti. E anche queste opere diventano strati di lettere d’amore scritte con pennellate di colori, proprio come gli strati di roccia dei cinquemila e più metri peruviani del Vinicunca. Secoli d’amore che si sono fatti onde di gialli, di rossi, di neri, di aranci, di marroni, di bianchi.
Sono pennellate, di scrittura larga e decisa, che sussurrano passeggiate a passo tardo e lento, con la postura dell’andare solo e pensoso. Di chi scruta e vive il paesaggio come condizione necessaria di fedeltà a un tutto e a un niente di attimi.
Il paesaggio, stilizzato e stratificato, si configura come una sorta di alter ego dell’artista e il dialogo che Giorgio instaura con il paesaggio diventa anche un dialogo con se stesso.
Ogni pennellata è un segno vivente che contiene molte vite, molti luoghi, molte armonie. Sono immagini che Giorgio fotografa con gli occhi e trattiene nelle mani per giorni e giorni. Cammina con loro accanto, parla con loro, sospira per loro e di loro.
Pensiamo alla serie del Pascolo vagante, del Volo, dei Riflessi. Opere che precedono questa serie e che con queste continuano a dialogare. Nel Volo già troviamo la forma sinuosa dell’onda che si fa eterea. Nel Pascolo vagante, le pecore erranti assumono una connotazione umana di dannunziana memoria.
Queste immagini sono figlie di attimi corti che si eternano e che restano. Come il Vajont, attimo corto di un disastro annunciato. Attimo eterno. E Giorgio era lì. Undicenne. Era lì che camminava sulla distesa lunare di fango. Era lì che tratteneva le immagini per ridisegnarle dopo molti anni, negli intensi disegni contenuti negli organetti pittorici da lui stesso pensati. Sono disegni trattenuti su metri e metri di carta arrotolata, disegni che non puoi toccare ma guardare con dovuto rispetto e silenzio. Un arrotolare immagini nel canto del silenzio, dove chi guarda deve agire con le sue mani per cogliere il seminato di Giorgio Vazza.
C’è sempre un sentire ossimorico nel suo procedere. Il dolore e la speranza. Il nero e il giallo. Luoghi, spazi, ricordo. Tre dimensioni che ci portano a leggere questa geografia interiore, intima piena d’amore e di ricordi. Di lune e di tramonti. Di spiagge e di acque. Di forme sinuose che ci fanno pensare alla fatica dell’anguilla che, come Giorgio, sa scrivere traiettorie impensabili nelle stratificazioni dell’acqua. E che, come Giorgio, conosce il torbido della sabbia mista all’acqua. Mi piace – dice Giorgio – cogliere dello stesso luogo le trasformazioni. Osservare il lago nei suoi verdi liquidi in movimento, ascoltare il ritiro dell’acqua e guardare la nuova dimensione della piana che si fa rena mobile al piede. Se nella serie del Pascolo itinerante, la figura dell’uomo era presente, qui lascia posto al ricordo puro dei luoghi. È l’anima a ricordo del visto e trattenuto. E come dare vita pittorica all’anima se non attraverso una musica o meglio una sinfonia di colori? Da circa otto anni, Vazza, raccoglie queste note e le trasferisce nelle opere che qui vediamo, utilizzando dimensioni e materiali diversi. Sono degli spartiti in linee emozionali, certo non ci sono le note, ma la sinfonia visiva c’è tutta. E quindi c’è la vita, in senso ampio e completo.
Tramonti, cascate ghiacciate, uragani, mari, acque lacustri, prati, cielo, nuvole… e poi la verticalità. Orizzontalità e verticalità.
Imperiosa si impone, in diverse sue opere, la montagna. In mezzo a tanta stratificazione orizzontale ecco apparire lei, LA MONTAGNA.
Le linee e le curve prendono la forma di una montagna che sembra inghiottire una balena, che a sua volta sembra aver inghiottito qualcosa di ignoto. Cosa trattenga questa balena non ci è dato saperlo ma con la mente possiamo immaginare il riferimento biblico-ebraico a Giona. E allora la montagna si fa devozione.
Una devozione al paesaggio verticale, devozione da cui ricavare insegnamento e luce. La montagna ci avvicina al cielo, al supremo, al sole e alla luna. E se anche il segno che la delinea è scuro e oscuro, sempre l’ascesa, spirituale o reale che sia, porta al ben-essere ma anche al tormento. Perché il Toc è pur sempre dietro al monte Dolada e dentro al cuore dell’artista.
Uscendo dalla sua casa, Giorgio scorge un taglio del monte Serva. Non il panciuto Serva che siamo abituati a vedere, ma uno scorcio appuntito che rimanda lontano. Sono molto legato a questa immagine, dice in devozione.
Per lui non è una montagna ferma, immobile, è qualcosa di diverso. Di sacro, sacro per la sua geografia interiore. È il suo personalissimo Fuji, il monte sacro ai giapponesi. Il suo pellegrinaggio mentale quotidiano lo porta vicino alla sacralità che prende forma nella sua pittura. Se pensiamo, anche la transumanza, Pascolo vagante, è una devozione alla sacralità di un rito millenario che si perpetua in luoghi e spazi aperti, dal pascolo pianeggiante a quello delle alture. Dall’orizzontale al verticale.
Come non pensare a Leopardi, al suo Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. A quando l’errare del pastore si trasforma in una riflessione filosofica sulla sofferenza e sull’esistere. Riflessione che continua per tutta la vita del poeta e che trova sfogo ne Lo Zibaldone dei pensieri. E Giorgio in queste sue opere ha voluto proprio creare uno Zibaldone dei luoghi. Un lavoro filosofico attraverso i luoghi, lo spazio, il ricordo e il tempo. Giorgio in questo è più di un artista, è un artista-filosofo che si interroga sul senso del tempo, e sul nostro essere nel tempo.
Chiudo soffermandomi sull’opera della speranza. C’è un uragano che tutto muove e distrugge, sentiamo il suo ululare, il suo strepitare e abbiamo paura. Ma nei segni scorgiamo una vela vissuta e la sagoma eterea di un cane che sembra indicare la strada della salvezza.
Perché Giorgio è così, è l’uomo della salvezza, l’uomo del giallo e della luce. L’artista che sa stratificare le millenarie immagini trattenute e ereditate dai suoi paesaggi, dai suoi luoghi, dai suoi predecessori. Colori ancestrali che prendono forme orizzontali e verticali. Perché i suoi luoghi sono luoghi interiori di intere generazioni che lui ha ereditato e saputo sintetizzare/sinfonizzare in queste opere. Quindi vi auguro sì una buona visione ma anche un buon ascolto, e non dimenticatevi di pensare al Vinicunca e al Fuji, ai pascoli, al Toc, al Serva, all’anguilla, alla balena, a Giona e al grande Giorgio che con il suo cane etereo ci indica una possibile e nuova via di rinascita. Dall’ombra alla luce. Dal nulla al tutto.
(Serena Dal Borgo)